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I piedi felici – “Donne che lavorano con il cuore”, Laura Pazzaglia. 2004 Aliberti editore

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I piedi felici

Antonia Micheletti. Calzature su misura a Reggio Emilia

 

Il principe la raccolse: era piccola, elegante e tutta d’oro.

La mattina dopo andò dal padre di Cenerentola e disse:

“Sarà mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa

scarpa d’oro”

  1. e W. Grimm, Fiabe

 

Dalla vetrina fluttuano, sospese su uno strano mobile a piccoli ripiani, diverse paia di calzature: ci sono una coppia di mocassini verde muschio, incorniciati da una bordatura di foglioline d’edera, tutte di pelle, scarpe che forse Peter Pan tornerà a riprendersi; da terra si innalza invece uno stivale a mezza coscia, un mosaico di tessere di camoscio di mille colori che certamente Capitan Uncino indossava in battaglia; su uno scaffale si è accasciata una sola scarpa di velluto blu, morbida come un calzino, ma di forma lunga ed appuntita: forse dentro dorme uno gnomo; sembrerebbero del tutto normali una coppia di austere décollettés marron, se non fosse che, su un lato, son fioriti a sorpresa, due boccioli di rose bordeaux; la principessa Shahrazàd passerà presto a ritirare le pantofole che sono state ricavate da una stoffa preziosa come un antico tappeto orientale.

In alto, dietro a tutte, sta, sola, una scarpina di pizzo, di filo bianco e d’oro, chiusa da un laccetto sottile. Non vedo l’altra.

Ma questa è un’altra storia.

 

Antonia sta lavorando dietro il suo banchetto di legno appiccicoso di colla e ingombro di ritagli di pelle e di attrezzi.

È una ragazza di quarant’anni col viso struccato e un gran grembiule da lavoro legato sui vestiti. Ha gli occhioni azzurri e un sorriso dolce e imbarazzato. Alza appena la testa da dietro la soletta di un grosso scarpone, e parla continuando ad estrarre una lunga fila di chiodi con una pinza.

 

Facevo l’Università, frequentavo Medicina, e non trovavo le scarpe che mi piacessero in quel periodo. Guarda che non ero una persona particolarmente interessata alla moda, anzi ero proprio presa da altre cose, anche impegnata politicamente.

Poi un giorno a Firenze dove ero andata a fare un giro con mio marito (forse eravamo seduti proprio a piazza della Signoria), ho detto: “Voglio imparare a fare le scarpe”. Così, giuro. E mio marito mi ha presa in parola.

Non sapevo nulla di scarpe, non sapevo neanche come avrei potuto cominciare, niente: completamente ignorante su tutto quello che poteva comportare una scarpa. E tanto meno sapevo a chi potermi rivolgere. Allora da quel momento è stato tutto un peregrinare per cercare chi potesse insegnarmi, perché ormai mi ero ostinata su questa faccenda delle scarpe. E avevo già 25 anni.

 

Poi mia madre è stata veramente male, ho dovuto seguirla molto e ho perso il ritmo con lo studio che fino a quel momento era andato benissimo. Non ho più ricominciato.

Ho vinto un posto in Comune per fare assistenza agli anziani e ho cominciato a lavorare lì, ma ho resistito un anno e mezzo e poi mi sono licenziata.

Nel frattempo, mi ero informata un po’. Avevo cominciato una scuola in Veneto per fare i modelli delle scarpe, ma non mi piaceva: io sono piuttosto pignola, volevo riuscire a capire il perché di tante cose. Allora ho deciso di iscrivermi alla scuola di Milano, la stessa che forma i modellisti di fabbrica che poi lavoreranno nelle industrie calzaturiere. La scuola era molto costosa, così un anno la frequentai tutte le settimane, mentre l’anno successivo la feci concentrata in un mese. Contemporaneamente, andavo a bottega, a Parma e a Milano.

 

Dai maestri imparai guardando senza chiedere, i maestri hanno i loro segreti.

E poi non li devi disturbare. È già molto se riesci ad andare a bottega! Io ho cercato tanto: nessuno voleva scommettere su una donna, questo è un mestiere prevalentemente maschile. Alla fine ho dovuto dimostrare che ero meglio di un uomo.

Una sera, io e un ragazzo abbiamo montato una scarpa davanti al maestro e… l’ho fatta meglio io! Solo allora sono entrata in bottega.

 

Comunque anche il più piccolo calzolaio può essere un maestro; ha sicuramente escogitato, nell’arco della sua esperienza, delle strategie che ti possono servire. Ognuno mi ha insegnato qualcosa. A volte sono sciocchezze: un modo di tenere uno strumento, oppure imparare a costruirti gli strumenti che adesso non esistono più partendo da quelli vecchi o presi da altri mestieri.

Ma entrambe queste persone, Orio di Milano e Allodi di Parma, mi hanno insegnato a non porre limiti alla ricerca dei materiali e degli strumenti, e a essere molto libera nell’utilizzarli. Nessuno mi ha mai dato regole. Nella bottega guardavi e basta.

E non venivi pagata.

Il primo paio di scarpe che ho fatto me lo ricordo bene: da uomo. Però non mi piace fare le scarpe da uomo. È molto più facile ma non mi piace.

 

Su un basso tavolino di legno c’è una gran confusione di suole inchiodate, fiori di pelle, piccole fibbie e scarpe da aggiustare, chiuse in sacchetti di cellophane. Ci sono anche fogli di carta con l’orma di un piede fatta a pennarello: una ha il mignolo un po’ sporgente, nell’altra l’alluce è lungo, tutte raccontano a loro modo il cammino di chi l’ha lasciata, la storia intima di una parte del corpo che quasi sempre il mondo trascura.

Antonia comincia proprio così. Fa appoggiare con delicatezza il piede nudo sulla carta, e comincia a studiarne le linee, ad apprezzarne i vezzi, poi pian piano scova i problemi, controlla gli appoggi. Dal piede in un attimo ci si trova a parlare della schiena, e da lì della masticazione, poi della digestione, fino all’umore, ai desideri, alle aspirazioni. Non tutti la ascoltano, parla con voce delicata, come di medico appassionato e insieme di fata industriosa. Poi fa correre la penna tutt’attorno, disegna il contorno del piede che ne viene tutto solleticato. Saputo l’uso e la foggia della scarpa desiderata, comincia il suo lavoro.

 

Anche con il piede che appare più semplice ci vuole molta umiltà, è difficile lavorare.

 

Dunque prima cerco una forma, tra tutte quelle che ho, che possa assomigliare un po’ al disegno del piede. La scelta dipende anche dal tacco che si vuole: per ogni centimetro di altezza, c’è una forma corrispondente, con la giusta inclinazione. Per questo possiedo più di mille paia di forme.

Però io non utilizzo mai la forma così com’è: ne ricostruisco sempre la punta, incollandoci sopra strisce di cuoio e poi via via, assottigliandole con il cutter. Ovviamente poi devo ripetere l’altra esattamente uguale; magari sono diverse perché i piedi sono diversi, ma devo renderle otticamente uguali. Bisogna rispettare le caratteristiche del piede, però dando una linea alla scarpa. Spesso anche la parte del tallone devo rifarla tutta.

 

Quando la forma è pronta, disegno il modello di scarpa prescelto sulla forma, poi lo riproduco sul cartoncino con un complicato procedimento. Quando è pronta la sagoma in cartoncino, la appoggio sulla pelle e la ritaglio.

La prima scarpa è di prova e viene ricavata da dei capretti che utilizzo per fare le fodere, non dalla pelle di cui sarà fatta la scarpa definitiva.

Quindi ritaglio la sagoma dal capretto, preparo il sottopiede e poi la cucio: solo per preparare il sottopiede, a volte ci vuole mezza giornata.

Una volta preparato anche il contrafforte che tiene ben fermo il tallone e il puntale, allora cominci a “montare” la scarpa, cioè appoggi la tomaia sulla forma e la fissi con tanti chiodi, alla soletta.

Qui c’è la prima prova per il cliente.

 

Mi mostra una scarpina floscia come un calzino, fatta di una pelle quasi bianca, completa di cinturino, di suola, morbida anch’essa, e di un piccolo tacco. Sembra una scarpa di carta per vestire una bambola di carta ritagliata che certo non camminerà mai.

Su questa scarpa posticcia Antonia disegna con la penna le eventuali modifiche: scollature, posizione dei lacci, dei cinturini, piccoli decori sulla mascherina.

Poi, trasferito il modello sulla pelle definitiva, questa la getta. E ne ricomincia un’altra, quella “vera”. E così per ogni paio: prima le scarpe “di carta” e poi quelle che ti porti a casa.

 

Questo si deve fare per un vero “su misura”.

 

[…]

 

Antonia porta ai piedi un paio di scarpe col cinturino e il tacco a rocchetto, come quelle delle ballerine di tango. Hanno un’aria vissuta, come per aver danzato tanto, ma conservano intatto il loro colore: verde smeraldo. Antonia per sé, non fa mai scarpe nere: rosse, verdi, di velluto, di stoffa scozzese, ma mai nere.

Qualche volta poi, le capita di fare scarpe che non metterà mai, scarpe fatte per scaldare il cuore, non i piedi, scarpe che non hanno un prezzo perché non sono in vendita.

 

Sì, c’è un paio di scarpe a cui tengo in particolare.

L’ho fatto in un periodo di crisi profonda. Volevo chiudere il laboratorio, ero distrutta e mi sono regalata una scarpa.

Come ho terminato quella scarpa, stavo bene e ho ricominciato. Stranissimo da spiegarti, ma vero.

Me la porto sempre con me. È diventata un po’ il mio simbolo, l’ho messa anche sulla copertina del mio catalogo. Adesso ripensandoci, mi chiedo come ho fatto a farla, non so se adesso riuscirei a rifarla, mi dimentico quanto lavoro c’è dietro.

È una di quelle lì esposte in vetrina, quella di pizzo bianco sullo scaffale in alto…

 

Qualcuno dica a Cenerentola che la sua scarpa è qui! Altrimenti non potrà indossarla per andare al gran ballo e non conoscerà il Principe. Che non si innamorerà di lei. E lei non potrà scappare a mezzanotte, perdendola sulle scale. E tutti avremo una storia in meno da raccontare.

 

Una notte d’estate, passando davanti alla bottega, ho visto Antonia che metteva in ordine il suo banchetto: sembrava esausta, con gli occhi cerchiati e le spalle doloranti.

Sulla sediola di ferro davanti allo specchio, era seduta una giovane donna alta. In una mano teneva un abito chiaro d’organza appeso ad una gruccia, nell’altra una coroncina di fiori di seta.

Alzatasi, li accostava al corpo e si rimirava, ai piedi due scarpette nuove di pelle rosata, chiuse da un piccolo bottone di cristallo.

L’ultima prova, credo, prima di domani.